Capitolo I – La Metamorfosi
La nebbia avvolgeva il Lago Resia quella mattina di novembre, quando Alessandro tornò dalla passeggiata lungo la riva. Beatrice lo aspettava sulla soglia della casa di pietra, quella che un tempo apparteneva alla nonna di lui, prima che le acque inghiottissero il paese vecchio.
«Sei tutto bagnato», disse lei, passandogli un asciugamano. «Cos’è successo?»
Alessandro non rispose. Aveva gli occhi vitrei, fissi su qualcosa che lei non poteva vedere. Si tolse il cappotto con gesti lenti, meccanici. Poi si accasciò sulla sedia davanti al camino.
«Alessandro?»
Lui la guardò. Per un istante, Beatrice vide nei suoi occhi qualcosa di nuovo: paura. Una paura antica, primordiale.
«Ho toccato il campanile», sussurrò lui. «Sono sceso con la barca… l’acqua era così bassa. L’ho toccato con la mano nuda.»
Beatrice sentì il sangue gelare. La nonna lo aveva sempre detto: Non toccate mai il campanile. Le campane hanno smesso di suonare quando il paese è annegato, ma la maledizione non ha smesso di aspettare.
«No», mormorò lei. «Non può essere…»
Ma già lo vedeva. Il tremore che attraversava il corpo di Alessandro. La pelle che si faceva più liscia, più chiara. I lineamenti che si ammorbidivano, come cera che si scioglie al sole.
«Beatrice… ho paura.»
Furono le ultime parole che pronunciò con la voce di un uomo.
Quella notte, sotto gli occhi atterriti di Beatrice, Alessandro cominciò a rimpicciolire. Il corpo si ritraeva su se stesso, le ossa si accorciavano, i muscoli svanivano. Era un processo silenzioso, inesorabile. Alle prime luci dell’alba, nella stanza risuonava solo il pianto di un neonato.
Beatrice lo tenne in braccio tutta la notte, mentre lui diventava sempre più piccolo, sempre più indifeso. Piangeva, e lei non sapeva se quelle lacrime fossero ancora di Alessandro, o solo l’istinto di un corpo che non ricordava più chi era stato.
La nonna arrivò al mattino. Aveva novant’anni e camminava appoggiandosi a un bastone nodoso. Quando vide il bambino tra le braccia di Beatrice, chiuse gli occhi.
«L’avevo avvertito», disse con voce rotta. «Gliel’avevo detto mille volte.»
«Può fare qualcosa?» supplicò Beatrice. «Conosce le vecchie storie, i rimedi…»
La vecchia scosse il capo. «La maledizione del lago non si spezza. Si può solo… accompagnare chi è stato colpito. Rendere l’attesa più breve.»
«L’attesa di cosa?»
La nonna non rispose. Si avvicinò al bambino, lo sfiorò con dita tremanti. «Ha gli occhi di Alessandro», sussurrò. «Ma Alessandro non c’è più. Quello che vedi è solo l’eco di ciò che era.»
Capitolo II – Il Peso della Cura
Beatrice chiamò il bambino Alessandro, anche se sapeva che era una menzogna pietosa. Lo allattava, lo cullava, cantava per lui le ninne nanne che sua madre aveva cantato per lei. Ma ogni volta che lo guardava, vedeva un estraneo. Un piccolo intruso che portava il volto del suo amato.
La nonna venne a vivere con loro. «Non puoi farlo da sola», disse. E aveva ragione.
Nei giorni che seguirono, il bambino si ammalò. Una febbre sottile, persistente. Non piangeva quasi più, si limitava a gemere debolmente, come un gattino abbandonato. Beatrice non dormiva, vegliava su di lui con gli occhi arrossati dalle lacrime che non voleva versare.
«È la maledizione che completa il suo corso», spiegò la nonna una sera, mentre mescolava erbe in una pentola. «Il corpo regredisce, ma l’anima… l’anima resta intrappolata. Non può né vivere né morire completamente. Alla fine, la febbre la libera.»
«Non voglio che muoia», sussurrò Beatrice.
«È già morto, bambina mia. Il tuo Alessandro è annegato con il campanile, sessant’anni fa. Quello che hai tra le braccia è solo un riflesso nell’acqua.»
Ma Beatrice non poteva accettarlo. Continuò a prendersi cura del bambino con ostinazione disperata. Gli parlava, gli raccontava dei loro progetti, del matrimonio che avevano programmato per la primavera, della casa che avrebbero costruito lontano dal lago.
Il bambino la guardava con occhi enormi, scuri. A volte, per un istante, Beatrice credeva di vedere un lampo di riconoscimento. Un frammento di Alessandro che lottava per emergere da quel corpicino indifeso.
La febbre peggiorò nella terza notte.
Beatrice lo teneva stretto al petto, sentiva il calore innaturale che emanava dalla pelle del bambino. La nonna sedeva accanto a loro, mormorando preghiere in una lingua che Beatrice non riconosceva. Una lingua vecchia come il lago, vecchia come le montagne che lo circondavano.
«È l’ora», disse infine la vecchia.
«No.»
«Beatrice…»
«Ho detto no!»
Ma il bambino smise di respirare poco dopo l’alba. Semplicemente, si arrese. Il corpicino divenne freddo e immobile tra le braccia di Beatrice, e per un momento ci fu un silenzio così profondo che lei credette che il mondo intero avesse smesso di esistere.
Poi urlò.
Urlò come non aveva mai urlato in vita sua, un grido che si infranse contro le pareti di pietra e si disperse nel vento che soffiava dal lago. La nonna pianse in silenzio, lacrime che rigavano il suo volto solcato dalle rughe.
Seppellirono il bambino nel piccolo cimitero sulla collina, quello che guardava il campanile sommerso. Beatrice non volle una cerimonia. Solo lei, la nonna, e il prete che mormorò qualche parola sulla tomba minuscola.
«Riposa, piccolo», disse Beatrice. «Ovunque tu sia.»
La nonna peggiorò rapidamente dopo il funerale. Era come se avesse trattenuto le ultime forze per aiutare Beatrice, e ora potesse finalmente lasciarsi andare. In una settimana divenne fragile come vetro, in due non si alzava più dal letto.
«Mi dispiace», disse a Beatrice una sera. «Mi dispiace di non aver protetto Alessandro.»
«Non è colpa sua, nonna.»
«Avrei dovuto distruggere quel campanile. Farlo esplodere, ridurlo in polvere. Ma avevo paura che la maledizione si liberasse completamente, che inondasse tutta la valle.»
«Non deve scusarsi.»
La vecchia sorrise debolmente. «Sei forte, bambina mia. Più forte di quanto pensi. Vai via da questo posto. Dimentica il lago. Vivi.»
Morì quella notte, nel sonno. Beatrice si svegliò al mattino e la trovò immobile, con un’espressione serena sul volto. Quasi felice.
Seppellì anche lei accanto al bambino.
Capitolo III – La Riva
Beatrice rimase sola nella casa di pietra. I giorni si susseguivano identici, grigi come la nebbia che copriva il lago. Usciva solo per comprare lo stretto necessario al villaggio, poi tornava a chiudersi tra quelle mura che avevano visto troppo dolore.
Ma una mattina di primavera, quando l’aria si fece più tiepida e i primi fiori cominciarono a sbocciare sulla collina, Beatrice prese una decisione.
Scese alla riva del lago.
Portava con sé una scatola di legno. Dentro c’erano le poche cose di Alessandro: una fotografia, il suo orologio da polso, una lettera che le aveva scritto mesi prima, piena di promesse e progetti.
Si sedette sulla riva, dove la ghiaia incontrava l’acqua. Il campanile emergeva dall’acqua come sempre, immobile, eterno. Le campane silenziose che avevano inghiottito Alessandro.
«Sei qui?» chiese al vento. «Sei ancora qui, da qualche parte?»
Il lago non rispose. Rifletteva solo il cielo grigio, indifferente.
Beatrice aprì la scatola, tolse la fotografia. Alessandro sorrideva, immortalato in un momento di felicità che ora sembrava appartenere a un’altra vita. Era così giovane, così vivo.
Una lacrima cadde sulla fotografia, offuscando il volto di lui.
«Mi avevi promesso una vita insieme», sussurrò Beatrice. «Mi avevi promesso di portarmi via da qui, di costruire una casa dove il sole entra dalla finestra al mattino. Mi avevi promesso figli che avrebbero avuto i tuoi occhi.»
Il vento si alzò, increspando la superficie del lago. Per un istante, nel gioco di luce e ombre sull’acqua, Beatrice vide un volto. Il volto di Alessandro, giovane e sorridente, che la guardava dal fondo del lago.
«Addio», mormorò lei.
Poi, con gesti lenti e deliberati, gettò la scatola nell’acqua. La guardò affondare, sparire tra le onde. Portava con sé tutto ciò che era stato Alessandro, tutto ciò che non sarebbe mai stato.
Beatrice rimase seduta sulla riva finché il sole non cominciò a tramontare. La luce del crepuscolo tingeva l’acqua di rosso e oro, trasformando il lago in uno specchio di fuoco. Il campanile proiettava un’ombra lunga sulla riva, un dito nero che puntava verso il cielo.
Quando si alzò per andarsene, non si voltò indietro.
Salì sulla collina, passò davanti al cimitero senza fermarsi. Raggiunse la casa di pietra e, per la prima volta da settimane, aprì tutte le finestre. L’aria fresca entrò nelle stanze, spazzando via l’odore di chiuso e malattia.
Quella notte, Beatrice sognò il lago. Ma non era più il lago grigio e minaccioso che conosceva. Era un lago di cristallo, trasparente, dove nuotavano pesci argentati e il sole penetrava fino al fondo. E lì, tra le rovine sommerse del paese vecchio, Alessandro camminava. Non era né l’uomo che era stato né il bambino in cui si era trasformato. Era qualcosa di diverso, di intero, di pace.
Le sorrideva.
«Vivi», diceva senza parole. «Vivi per entrambi.»
Quando Beatrice si svegliò, le guance erano bagnate di lacrime. Ma per la prima volta da mesi, sentiva qualcosa che assomigliava alla speranza.
Si alzò, si vestì, preparò una piccola valigia. Chiuse la casa di pietra, lasciando la chiave sotto una pietra accanto alla porta. Forse qualcuno l’avrebbe trovata, forse sarebbe rimasta lì per sempre.
Camminò verso la strada che conduceva fuori dalla valle. Non si voltò a guardare il campanile, non cercò un ultimo sguardo al lago. Davanti a lei c’era solo la strada, e al di là delle montagne un mondo che non aveva ancora visto.
«Addio, mio caro», sussurrò al vento. «Addio.»
E il vento le portò indietro, forse, un’ultima carezza. Il suono di campane che non avrebbero mai più suonato, ma che lei sola poteva sentire. Un addio. Una benedizione. Una liberazione.
Beatrice camminò verso il sole nascente, e non si voltò mai più indietro.
Fine

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